marco
2003-10-17 14:06:39 UTC
da Avvenire
LA FINE DI CUCCHI, IL NEO CHE RIMANE
Bergomi: «Ad Enrico non si poteva non voler bene.
Con l'Inter giocò grandi partite: mi piace ricordarlo così: in campo, da
vincente»
Quella di Enrico Cucchi è la scomparsa «misteriosa» più recente nel mondo
del calcio: 4 marzo 1996. Il suo calvario cominciò a Bari, in seguito
all'operazione ad un neo della coscia, che portò alla successiva metastasi
nel 1994, l'ultima stagione agonistica giocata nelle fila del Ravenna. Di
quell'operazione chirurgica non rimase traccia, insabbiata per la solita
logica della speculazione mercantile sulla pelle dei calciatori. L'idea
della vittima sacrificata al mondo del pallone venne alla giovane vedova,
Sabrina, che ha informato il giudice Guariniello sull'eventualità che suo
marito non fosse stato tutelato a dovere da un punto di vista medico nelle
società in cui ha militato. Ipotesi che il padre di Cucchi, Piero, non
conferma, né smentisce, chiuso ancora nel suo dolore di genitore e primo
allenatore di Enrico. Solo quello resta oltre al grande dubbio di una
vicenda sepolta nel silenzio che è stato il preludio alla fine di un ragazzo
di 30 anni.
Debuttò in C2 che non aveva ancora sedici anni e provino vincente all'Inter.
«Beltrami lo vide e lo presero subito». Cominciava nell'82, a 17 anni la
grande avventura nerazzurra, ma gli spazi lì a centrocampo erano sbarrati, e
per 4 stagioni si accontentò di guardare da fuori. Arrivò il suo turno, ad
Ascoli nel gennaio del 1985, mandato in campo da Castagner. La più grande
serata della sua vita passò però il 10 aprile di quell'anno, quando in Coppa
Uefa contro il Real, trascinò i nerazzurri alla vittoria. Ormai era uno che
contava Enrico e a settembre arrivò anche la convocazione nell'Under 21.
Ma la maglia dell'Inter era la sua seconda pelle e la società, fresca di
scudetto, lo riaccolse nel gruppo anche se per Enrico c'era il solito
problema di farsi largo. Preciso come un suo contrasto, arrivò inesorabile
il momento della seconda fuga da San Siro, con viaggio verso Sud. «Andò al
Bari, allenato da Salvemini, stagione '89-'90, e dovette subito farsi
operare alla coscia per via di un neo...». Un punto nero che era cresciuto
nel tempo e aveva richiesto l'incisione al Policlinico del capoluogo
pugliese, per evitare che si trasformasse in qualcosa di più grave,
maleficio che puntualmente invece poi si verificò.
«Enrico tornò in campo, perché era uno che non si lamentava mai e per lui
il calcio era tutto, insieme allo studio». Campo e studio, con ore passate
sopra i codici di Giurisprudenza perché «da grande, sognava di fare
l'avvocato o magari il procuratore in difesa dei diritti dei colleghi», quei
diritti che, come aveva toccato con mano, si potevano eludere così
facilmente. «Era iscritto all'Università di Bari e gli mancavano quattro
esami prima che la malattia gli impedisse di continuare». Un giorno
quand'era al Ravenna, il dolore agli adduttori si fece fortissimo: «Era
pieno di linfonodi, di ghiandole maligne, fu operato a Milano alla clinica
di Santa Rita e poi cominciò la chemioterapia per evitare quelle metastasi
che invece lo riempirono...». Il racconto di un padre che si spezza in un
dolore pari a quello provato dal figlio. Piero quando seppe che non c'era
più niente da fare, abbandonò il lavoro, la panchina del Potenza, per stare
vicino ad Enrico, che tentava la sua ultima difesa da centrocampista.
Ma quel 4 marzo del '96, la sua ultima partita con la vita si interruppe e a
ricordarlo in lacrime fu il suo amico Beppe Bergomi: «Enrico era uno a cui
non si poteva non voler bene. Ho in mente la partita meravigliosa che giocò
contro la Samp, facendoci vincere la Supercoppa italiana nell'89-'90. Mi
piace ricordarlo così, in campo, da vincente». Un vincente, che ha lasciato
un grande vuoto nell'esistenza di un padre che, a distanza di 6 anni, fa
fatica a credere che quel ragazzo così simile a quelli che ancora oggi
allena ogni giorno, non c'è più.
Forse però qualche responsabilità, ancora una volta, si annida nelle nebbie
omertose del «pallone malato», se il pm Guariniello ha ripreso in mano il
"fascicolo Cucchi". «È difficile stabilire responsabilità e connessioni.
Certo, Guariniello è giusto che faccia tutte le indagini possibili e vada
avanti per la sua strada. Ma a me non piace dare spettacolo e non me la
sento di dire che qualcuno ha sbagliato.
Massimiliano Castellani
LA FINE DI CUCCHI, IL NEO CHE RIMANE
Bergomi: «Ad Enrico non si poteva non voler bene.
Con l'Inter giocò grandi partite: mi piace ricordarlo così: in campo, da
vincente»
Quella di Enrico Cucchi è la scomparsa «misteriosa» più recente nel mondo
del calcio: 4 marzo 1996. Il suo calvario cominciò a Bari, in seguito
all'operazione ad un neo della coscia, che portò alla successiva metastasi
nel 1994, l'ultima stagione agonistica giocata nelle fila del Ravenna. Di
quell'operazione chirurgica non rimase traccia, insabbiata per la solita
logica della speculazione mercantile sulla pelle dei calciatori. L'idea
della vittima sacrificata al mondo del pallone venne alla giovane vedova,
Sabrina, che ha informato il giudice Guariniello sull'eventualità che suo
marito non fosse stato tutelato a dovere da un punto di vista medico nelle
società in cui ha militato. Ipotesi che il padre di Cucchi, Piero, non
conferma, né smentisce, chiuso ancora nel suo dolore di genitore e primo
allenatore di Enrico. Solo quello resta oltre al grande dubbio di una
vicenda sepolta nel silenzio che è stato il preludio alla fine di un ragazzo
di 30 anni.
Debuttò in C2 che non aveva ancora sedici anni e provino vincente all'Inter.
«Beltrami lo vide e lo presero subito». Cominciava nell'82, a 17 anni la
grande avventura nerazzurra, ma gli spazi lì a centrocampo erano sbarrati, e
per 4 stagioni si accontentò di guardare da fuori. Arrivò il suo turno, ad
Ascoli nel gennaio del 1985, mandato in campo da Castagner. La più grande
serata della sua vita passò però il 10 aprile di quell'anno, quando in Coppa
Uefa contro il Real, trascinò i nerazzurri alla vittoria. Ormai era uno che
contava Enrico e a settembre arrivò anche la convocazione nell'Under 21.
Ma la maglia dell'Inter era la sua seconda pelle e la società, fresca di
scudetto, lo riaccolse nel gruppo anche se per Enrico c'era il solito
problema di farsi largo. Preciso come un suo contrasto, arrivò inesorabile
il momento della seconda fuga da San Siro, con viaggio verso Sud. «Andò al
Bari, allenato da Salvemini, stagione '89-'90, e dovette subito farsi
operare alla coscia per via di un neo...». Un punto nero che era cresciuto
nel tempo e aveva richiesto l'incisione al Policlinico del capoluogo
pugliese, per evitare che si trasformasse in qualcosa di più grave,
maleficio che puntualmente invece poi si verificò.
«Enrico tornò in campo, perché era uno che non si lamentava mai e per lui
il calcio era tutto, insieme allo studio». Campo e studio, con ore passate
sopra i codici di Giurisprudenza perché «da grande, sognava di fare
l'avvocato o magari il procuratore in difesa dei diritti dei colleghi», quei
diritti che, come aveva toccato con mano, si potevano eludere così
facilmente. «Era iscritto all'Università di Bari e gli mancavano quattro
esami prima che la malattia gli impedisse di continuare». Un giorno
quand'era al Ravenna, il dolore agli adduttori si fece fortissimo: «Era
pieno di linfonodi, di ghiandole maligne, fu operato a Milano alla clinica
di Santa Rita e poi cominciò la chemioterapia per evitare quelle metastasi
che invece lo riempirono...». Il racconto di un padre che si spezza in un
dolore pari a quello provato dal figlio. Piero quando seppe che non c'era
più niente da fare, abbandonò il lavoro, la panchina del Potenza, per stare
vicino ad Enrico, che tentava la sua ultima difesa da centrocampista.
Ma quel 4 marzo del '96, la sua ultima partita con la vita si interruppe e a
ricordarlo in lacrime fu il suo amico Beppe Bergomi: «Enrico era uno a cui
non si poteva non voler bene. Ho in mente la partita meravigliosa che giocò
contro la Samp, facendoci vincere la Supercoppa italiana nell'89-'90. Mi
piace ricordarlo così, in campo, da vincente». Un vincente, che ha lasciato
un grande vuoto nell'esistenza di un padre che, a distanza di 6 anni, fa
fatica a credere che quel ragazzo così simile a quelli che ancora oggi
allena ogni giorno, non c'è più.
Forse però qualche responsabilità, ancora una volta, si annida nelle nebbie
omertose del «pallone malato», se il pm Guariniello ha ripreso in mano il
"fascicolo Cucchi". «È difficile stabilire responsabilità e connessioni.
Certo, Guariniello è giusto che faccia tutte le indagini possibili e vada
avanti per la sua strada. Ma a me non piace dare spettacolo e non me la
sento di dire che qualcuno ha sbagliato.
Massimiliano Castellani